Integrare gli elementi, proprio come quando mettiamo insieme acqua e farina.

E’ questo che facciamo in una pratica di yoga.

Qualcosa comincia a trasformarsi lavorando sulla nostra materia corporea quando ci mettiamo anche dell’altro: quando siamo attenti, quando il nostro respiro anima la postura, quando siamo lì proprio per noi.

Mi capita spesso di ripeterlo a lezione: non è tanto la forma esteriore, ma la qualità viva con cui abitiamo quell’istante a fare la differenza.

Per questo lo yoga antico venne chiamato dai saggi Raja yoga, cioè yoga regale, yoga nobile. Una pratica diviene regale quando ci rende vivi, quando ci rende consapevoli, liberi, quando ci risveglia alla nostra nobiltà d’animo.

Diventiamo regali -e reali- quando siamo capaci di vivere l’integrazione, di esserla, e non solo di comprenderla con la mente.

Per questo è importante e necessario che il nostro sapere passi anche attraverso il corpo. Per questo intrecciamo posizioni, pranayama e tecniche meditative, per passare dal sapere al sentire.

Quali parti del nostro essere sono attive, ricettive e viste! quali parti sono in ombra, limitate o rifiutate?

Continuamente ci viene richiesto questa mescolanza anche nel lavoro interno: non dobbiamo cancellare o respingere niente di noi, ma unicamente e sempre trasformare.