La cosa più difficile dei nostri rapporti è comprendere che ognuno ha la sua visione della realtà, il suo modo di dipingere il mondo. Un modo tutto suo, dovuto alla sua storia, alla sua educazione e a mille pensieri che in ogni istante delineano un certo paesaggio.  E’ la modalità con cui guardiamo le cose ad essere la più potente forza che dà forma alla nostra vita: in un senso profondo la nostra percezione è realtà.

La fenomenologia ci ha mostrato che ogni coscienza è coscienza di qualcosa e che il mondo non è semplicemente fuori di noi come un oggetto dato, ma è la nostra intenzionalità a costruirlo. Come mi rapporto a un tramonto, a un libro, a una persona? Come guardo ciò che mi sta intorno? E’ su questo rapporto (l’intenzione) che la mia coscienza dona un certo valore alle cose.  Mi possono apparire belle o brutte, piacevoli o spiacevoli. Il mondo reale è ciò che io sento, tocco, penso. E’ cioè il mio vissuto e non un qualcosa di oggettivo.  A partire da questa verità possiamo chiederci: come incontro le altre persone? Esiste un “luogo” o una modalità grazie la quale io, con il mio intenzionarmi, posso incontrare te con il tuo intenzionarti?

Husserl ci dice di sì, avvisandoci però che è un esercizio molto faticoso: si deve infatti affrontare quella tenenza ad agire e a dare “tutto per scontato” che abita in noi costantemente. Se cose e persone mi sono familiari, nell’incontrarle sono da subito nell’ambito del giudizio. L’atteggiamento fenomenologico richiede che facciamo “piazza pulita” di questo approccio scontato, che facciamo epoché, che mettiamo cioè “tra parentesi” ciò che già conosciamo, esortandoci a un’azione che è la definizione stessa dello yoga: arrestare il flusso di pensieri per arrivare all’essenza, al centro, al nucleo.

Ai tempi dell’università forse non ero pronta ad incontrare questa stravolgente verità. Husserl non mi aveva conquistata. Sono dovuti passare anni, esperienze, delusioni, crisi e nuove opportunità perché la potessi riscoprire nella scuola di counseling. E con un sottile godimento notare che la filosofia yogica aveva già visto bene millenni prima. Quando si tratta del corpo ci appare naturale che ognuno di noi abbia percezioni differenti, non è così invece per l’anima. Per comprendere davvero un’altra persona dobbiamo operare un processo in cui non la si osserva dal-di-fuori, ma dal-di-dentro, si osserva il come conosce le cose, il come le ha vissute e le vive. Allora comprendere davvero significa afferrare l’essenza della persona nella sua diversità senza incasellarla in un modello definito apriori.

E’ uno sguardo nuovo quello che dobbiamo imparare ad acquisire, uno sguardo- per così dire-nudo: innocente come quello di un bambino, pieno di meraviglia perché mai abituato, mai scontato. “Per incontrare davvero l’interezza dell’altro devo mettere me stesso in secondo piano, soprattutto quando mi trovo di fronte a una persona che mi coinvolge nel profondo. Se mi interesso soltanto a ciò che la sua presenza mi fa vivere e resto chiuso nelle pure reazioni automatiche e nei miei pregiudizi, farò un’esperienza di separazione più che di incontro. Quando invece rinuncio alla prepotenza di godere me stesso tramite lui, quella che mi rafforza sempre nell’illusione di essere all’esterno degli altri, in realtà prendo la decisione di morire a quel me stesso che si sente separato.”

Esiste un luogo in noi di ascolto vero e profondo, e questo luogo non sta nella testa. Quando riesco a lasciare da parte il mio ego, scopro un universo fatto anche degli altri. Un’intersoggettività originaria, uno spazio in cui non ho nulla da dimostrare, nulla da conquistare, ma posso finalmente rilassarmi e accogliere nella casa del mio cuore ogni ospite che arriva perchè meraviglioso compimento della mia unità.