Amo il mio respiro. Ultimamente sta diventando per me una pratica di risveglio interiore. Contattarlo lì, nell’addome, sentire la pienezza della vita che entra senza indugi, senza ricatti, semplicemente perché sono al mondo. Un soffio, donato da una Volontà originaria e perfetta che ha desiderato abitarmi fin dall’inizio per amore.

Accogliere i suoi i suoi tempi; gli spazi vuoti dove imparare a fidarmi di ciò che arriva; e il suo tutto, in una danza continua in cui incontro, vivo e lascio andare.

Dopo anni di yoga mi accorgo di come spesso ci sia una considerazione molto riduttiva del nostro respiro, come se respirare meglio servisse unicamente a stare meglio. Gli antichi testi Veda sono molto chiari su quest’aspetto: siamo esseri generati, perciò bisognosi di respiro, immersi in una temporalità che non possiamo trattenere, pena l’infelicità. Dove mi trovo rispetto a questa Fonte generativa è il respiro ad indicarmelo. Mi basta osservare che succede: inspiro, pausa, espiro, pausa. Bussola di questa fondamentale relazione e di tutte le mie relazioni.

E’ necessario allora riuscire a passare da un respiro vitale a un respiro spirituale, cioè da un respiro che nutre l’essere vivente a un respiro che nutre l’essere umano. “Il soffio libero dell’anima deve essere a nostra disposizione per respirare, amare, ascoltare e parlare. E anche per pensare in maniera autonoma.”

Imparare una logica diversa in cui non voler sempre prendere, non voler sempre afferrare, ma lasciarsi semplicemente andare per ricevere, per accogliere, perché una sapienza che mi precede mi ama così tanto che mi vuole Viva, è il compito più grande. Mi ascolto, respiro e lascio che sia.