C’è una cosa del praticare all’aperto che mi piace particolarmente. È quella sensazione a cui è difficile dare un nome perché è un meraviglioso miscuglio tra l’essere sprotetti e il sentirsi a casa.
Non ci sono mura a difendere la nostra corazza, non c’è la perfezione del pavimento, la luce giusta o la temperatura ideale; siamo un po’ costretti a tirar fuori la nostra selvatichezza quando siamo in natura, a fare i conti con qualcosa di imprevedibile che può infastidirci all’improvviso: una formica che cammina sul braccio mentre stiamo distesi, un insetto che ci ronza intorno durante la meditazione o il gatto che vuole farsi le unghie sul nostro tappetino quando siamo impegnati a mantenere una posizione.
È per noi una grande possibilità su diversi fronti; è un ritorno alle origini, a chi siamo per davvero.
Sentire le asperità del terreno su cui posiamo i piedi invitarci a rafforzare il nostro stare; ascoltare come ciò che succede intorno sia in realtà una danza per noi: lo stesso spazio del cielo possiamo portarcelo dentro, lo stesso grido libero delle rondini possiamo cercarlo quando ci sentiamo ristretti tra il fare e il pensare.E non c’è bisogno di nulla se non di aprirci e ritornare al quel semplice senso di appartenenza perché noi siamo anche lì fuori.
Ieri sera è stata una poesia di Thich Nhat Hanh ad accompagnarci. “Interessere”.
Una parola che ha tutto il sapore dell’incontro perché essere –qui in questo mondo, in questa vita- presuppone sempre anche un inter- un essere collegati al resto.
E ieri sera , ancora una volta, siamo stati cielo e prato, alberi e voli.
–