“Cura
di abitare l’anima
come l’animale la sua pelle,
abitarla In gloria e luminescenza
e in pena e meschina piccolezza
In domestico deserto
abitarla sempre
anche in tua assenza
Indossarla la sua carne senza spine
come corpo nuovo, come candida corrente.”
(C. Candiani)
Quando sono approdata allo yoga sono rimasta subito affascinata dalla modalità con cui questa antichissima via rendesse esperienza concreta gli stessi insegnamenti che all’università mi avevano coinvolta.
Gli antichi greci, così come gli yogi, erano concordi nell’affermare una grande e potentissima legge: se non raggiungiamo la parte più profonda di noi non saremo mai in grado di cambiare per davvero. Se non contattiamo la verità dell’anima, se non ce ne prendiamo cura, se non ci ricordiamo che è lì che risiede il nostro fuoco, che è lì l’universale sorgente, quell’apparente trasformarci sarà sempre e solo superficiale e temporaneo.
La cura di sé è una pratica di spiritualità non perché ha a che fare con qualche religione, ma perché riguarda quell’intimo mistero che alberga dentro ognuno di noi.
Lavorare sulla nostra struttura profonda prevede due sentieri: da un lato abbiamo bisogno di nutrire- cuore, mente, parti di noi ferite -, dall’altro di lasciar andare – vecchi schemi, idee distruttive, credenze-; da un lato abbiamo bisogno di pratiche interiori, dall’altro di pratiche che ci relazionano alla vita.
Cercare le nostre mappe per non abbandonarla, fiduciosi che l’universo ci è continuamente accanto in questa promessa di fedeltà,.
Abitarla,
abitarla sempre.